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Numero 4 - Settembre 2019
Numero 4 Settembre 2019

Un’educazione che taglia i ponti col passato non è educazione

L’educazione deve conservare il passato. Così scrive Hannah Arendt: “A scanso di equivoci: a mio avviso il conservatorismo, nel senso di conservazione, è l’essenza dell’attività educativa.”


27 Agosto 2019 | di Frank Furedi

Un’educazione che taglia i ponti col passato non è educazione Viviamo in un mondo in cui quasi ogni problema riguardante i giovani viene reinterpretato attraverso il prisma della salute mentale. Ogni giorno che passa bambini e adolescenti sono sempre più rappresentati come potenziali pazienti e non come individui capaci di esercitare la propria autonomia morale.
            
Nei Paesi anglo-americani gli studenti sono trattati come potenziali pazienti bisognosi di protezione dallo stress che un serio sistema d’istruzione può causare. Quest’estate abbiamo appreso che il sistema scolastico, e la macchina degli esami in particolare, sono rimasti invischiati nella tragedia legata a un presunto “effetto trigger” della scuola [ovvero la capacità di un elemento di scatenare ricordi ed emozioni connessi a un vissuto traumatico N.d.T.]. Nel Regno Unito, una commissione è stata costretta a difendere la scelta di porre una domanda sul conteggio delle calorie nella prova di matematica dell’esame GCSE [General Certificate of Secondary Education, conclusivo dell’istruzione obbligatoria, affrontato quindi dagli studenti a 16 anni, N.d.T.]. Pare infatti che il quesito abbia scatenato una crisi in una sedicenne, che – stando al resoconto di uno dei presenti – è andata in panico ed è stata “costretta ad abbandonare di corsa l’esame”[1].
 
La commissione, in questo caso una commissione Edexcel, è stata prontamente redarguita per la sua evidente mancanza di sensibilità nei confronti dei problemi psicologici dei giovani. “Contare le calorie in una prova di matematica? La commissione si dovrebbe vergognare” è stato il titolo di un commento apparso sul Guardian. La giornalista scrive che un quesito che implichi il conteggio calorico può risultare “estremamente deleterio da affrontare per certe persone”[2].
 
I commissari, costernati dalla reazione alla domanda, hanno comunicato che qualsiasi studente pensasse che il quesito “potesse aver avuto un impatto negativo sulla propria resa all’esame” avrebbe dovuto prendere contatti per il tramite del proprio istituto scolastico.
 
La controversia suscitata da un quesito sul conto calorico solleva una questione fondamentale sul senso dell’educazione stessa. Non ci sono dubbi sul fatto che le domande di un esame possano impattare sulla prestazione dello studente. Se esse abbiano un impatto forte e stressogeno o meno non è oggi però determinato dalle domande in sé, ma dalle associazioni che possono evocare nello studente. Non è il quesito d’esame a indurre a interpretare come traumatiche le associazioni sgradevoli, ma l’attuale processo di socializzazione.
 
Quel che è cambiato negli ultimi anni è che l’attuale forma di socializzazione, che io chiamo “terapeutica”, incoraggia gli studenti a considerare gli esami e i quesiti non in quanto tali ma come stressanti e potenzialmente come minacce al proprio benessere. Anche a prescindere da eventuali domande traumatizzanti, è tutto il sistema degli esami a esser stato medicalizzato e dipinto come una minaccia alla salute mentale. Molti giovani esposti a tale interpretazione terapeutica dell’educazione l’hanno interiorizzata e si sono familiarizzati con la metafora dello scatenamento emotivo dell’effetto trigger [to trigger significa “innescare, scatenare” N.d.T.]. In questo clima è inevitabile che le ansie, normali e sempre esistite, relative agli esami siano state esacerbate e vengano interpretate come gravi problemi psicologici. Così, è probabile che in alcuni casi il turbamento sia interpretato come trigger, come fattore scatenante, e inneschi una seria reazione emotiva.
 
Le spiegazioni adottate per dar conto della fragilità emotiva degli studenti ascrivono la responsabilità a recenti cause socio-economiche quali la velocità dei cambiamenti e l’insicurezza economica cui sono esposti i giovani. Simili interpretazioni trascurano uno dei fattori principali dell’infantilizzazione delle nuove generazioni, che trascende le condizioni socio-economiche: l’incapacità della società contemporanea di educare ai valori del passato.
 
L’educazione deve conservare il passato. La filosofa politica Hannah Arendt è inequivoca su questo punto. Scriveva infatti: “A scanso di equivoci: a mio avviso il conservatorismo, nel senso di conservazione, è l’essenza dell’attività educativa”. L’obiettivo della Arendt è conservare non per nostalgia, ma perché la conservazione dell’antico fornisce le basi per il rinnovamento e l’innovazione. Anzi, la pensatrice si spinge ad asserire che “l’educazione deve essere conservatrice” per creare le condizioni entro le quali i giovani si possano sentire sicuri per procedere a riformare e migliorare il loro mondo. È solo in relazione al mondo così com’è stato preservato che i giovani sviluppano le proprie capacità di creare qualcosa di nuovo.             
 
È facile equivocare l’idea della conservazione come essenza dell’istruzione prendendola per un programma politico retrivo o reazionario. Ma le argomentazioni a favore della conservazione si basano sull’assunto che, nel passaggio generazionale, gli adulti devono assumersi la responsabilità del mondo così com’è, e trasmetterne l’eredità culturale e intellettuale ai giovani. Un atteggiamento conservatore è specificamente richiesto, nell’ambito della trasmissione intergenerazionale.   
 
Fino a tempi recenti, i principali pensatori provenienti dall’intero spettro ideologico comprendevano l’importanza di trasmettere le conoscenze e i valori del passato ai giovani. Scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere: “[...] si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma [...]”. Gramsci partiva dal presupposto che l’esperienza di vita dei giovani è insufficiente ad afferrare i meccanismi di funzionamento del mondo. I giovani hanno bisogno dell’aiuto delle vecchie generazioni per orientarsi.
 
Il filosofo inglese Michael Oakeshott, che scriveva da una prospettiva conservatrice, concludeva che “l’educazione nel suo significato più generale può essere definita uno specifico passaggio di consegne che intercorre tra generazioni umane in cui i nuovi venuti sono iniziati al mondo che li ospita”. Proseguiva poi chiamandola un “trasferimento morale”, “da cui una vita identificabile come umana dipende per poter continuare”.
 
La socializzazione dei giovani per mezzo della trasmissione intergenerazionale dell’eredità del passato forgia connessioni tra i componenti della società. Fornisce ai giovani le risorse culturali e morali necessarie per farsi strada nel mondo e acquisire forza dall’esperienza dei più vecchi.
 
Questo non significa che la pedagogia in auge abbia del tutto abbandonato il dovere alla socializzazione. Sarebbe impossibile. Ma la mancanza di chiarezza sulla trasmissione valoriale ha condotto alla ricerca di alternative. In passato, coloro che si dedicavano alla socializzazione dei bambini si preoccupavano precipuamente di trasmettere atteggiamenti morali e culturali. Tutto ciò mantiene tuttora la sua rilevanza. Ma esiste una notevole differenza tra il modo in cui oggi le scuole vedono il ruolo della socializzazione e quello di un secolo fa: la socializzazione è sempre più percepita come una forma di gestione del comportamento. Ha meno a che fare con l’introduzione degli studenti a uno stile di vita consolidato o con la loro familiarizzazione con il codice morale di una comunità, e ha più a che fare con l’educazione alla gestione delle proprie emozioni e delle relazioni con gli altri. Oggi li educhiamo alle cosiddette life skills. Il ruolo dei genitori non è quello di trasmettere valori, ma di rinforzare le emozioni, gli atteggiamenti e i risultati dei loro figli. Nel XXI secolo, i genitori responsabili sono rappresentati come gestori esperti della sfera emotiva dei figli.
 
Gli esperti e gli educatori sostengono di frequente che la socializzazione dei più piccoli si basa sempre più su tecniche terapeutiche perché ci sono state di recente delle scoperte sulla vita del bambino, inerenti a deficit sinora ignorati che richiederebbero sostegno terapeutico e specifici interventi. Tali “scoperte” relative alla vulnerabilità dei bambini, tuttavia, possono essere anche interpretate in modo affatto diverso. Non sono tanto scoperte sulle condizioni dei bambini, ma piuttosto un’espressione della difficoltà che i genitori e altri adulti hanno nel tentare di socializzarli.
 
Sostenere i bambini e accrescerne l’autostima sono propositi promossi attivamente da scuole e genitori. Quest’enfasi sulle conferme si è sviluppata parallelamente a un regime educativo che cerca di minimizzare ogni possibile rischio. Laddove però la strategia delle conferme si prefigge di rendere i giovani più forti, di fornire loro la sicurezza e la flessibilità per diventare adulti realizzati, quel che succede di fatto è proprio l’opposto.
 
A meno che non li si educhi a capire da dove vengono, i giovani continueranno a essere deprivati delle risorse morali che potrebbero dar loro la forza per farsi strada nel mondo. Molti si sentiranno fragili e disorientati, nonché inclini a interpretare sempre i problemi esistenziali attraverso il prisma della salute mentale. La socializzazione conseguita con conferme e rinforzi anziché per mezzo della tradizione lascia i giovani in balìa dell’assenza di un fondamento di senso che li aiuti a dare significato alla loro esperienza.
 
*Traduzione a cura di Alberto Dainese
 
[1] https://www.birminghammail.co.uk/black-country/anorexic-schoolgirl-16-forced-leave-16428140 (ultima visita 15-7-19), N.d.A.
[2] https://www.theguardian.com/society/shortcuts/2019/jun/12/counting-calories-in-a-maths-test-the-exam-board-should-be-ashamed (ultima visita 15-7-19), N.d.A.
 
 
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Frank Furedi è professore emerito di sociologia all'Università del Kent, Regno Unito. Ha studiato i nodi problematici della vita culturale contemporanea, come la paura nei confronti di un futuro incerto, la percezione del rischio nell’era post 11 settembre, la vulnerabilità nell’incertezza dei ruoli, soprattutto educativi, la nuova fondazione del concetto di autorità morale nelle società occidentali della postmodernità . Spesso presente nei dibattiti culturali e televisivi inglesi, ha pubblicato diversi volumi, tra i quali sono stati tradotti in italiano, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (2005) e Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (2007).
Fatica sprecata. Perchè la scuola oggi non funziona, Vita e Pensiero 2012, è un testo molto importante in cui Furedi analizza "il paradosso dell'istruzione": mentre investiamo sempre di più nell'insegnamento, e sempre di più vorremmo ricavarne, le nostre scuole chiedono sempre meno agli studenti. Basse aspettative nei confronti dei ragazzi, la tendenza a infantilizzarli attraverso una forte psicologizzazione del rapporto educativo e un infinito maternage, la ricerca ossessiva delle loro motivazioni, il declinare dell'autorità degli adulti producono l'esatto contrario di ciò a cui l'istruzione dovrebbe mirare, cioè la formazione di persone autonome, critiche, capaci di una propria visione del mondo.
 
 


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Numero 4 - Settembre 2019
Direttore Responsabile: FRANCO ROSSO
Responsabile di Redazione: RENZA BERTUZZI
Comitato di Redazione:
Vicecaporedattore: Gianluigi Dotti.
Antonio Antonazzo, Piero Morpurgo, Fabrizio Reberschegg, Massimo Quintiliani.
Hanno collaborato a questo numero:
Giovanni Carosotti, Alberto Dainese, Frank Furedi, Marco Morini, Adolfo Scotto di Luzio, Fabrizio Tonello, Ester Trevisan.