Se in ambito politico il malessere della forzata chiusura ha fatto avvertire in termini più urgenti la necessità di un più forte impegno e di più sostanziosi investimenti per la scuola, se la stampa ha variamente insistito sul rilievo della scuola per il rilancio dell’Italia e per il superamento della crisi, se ne è ricavata comunque un’insistenza proprio sui termini e sulle prospettive che hanno contribuito ad uno sfaldamento della scuola stessa, dei suoi contenuti formativi e della sua destinazione sociale
28 Agosto 2020 | di Giulio Ferroni
Le prime crisi con cui si è aperto il nuovo secolo/ millennio non hanno chiamato in causa direttamente la scuola: e se l’iniziale e minaccioso 11 settembre ha lasciato una traccia soprattutto emotiva nei primi giorni scolastici del 2001, ben scarsa risonanza sembra aver suscitato nella vita quotidiana della scuola la crisi finanziaria del 2008. Invece la ben più grave crisi che abbiamo attraversato e con cui stiamo ancora a fare i conti in questo 2020 si è rovesciata in pieno sulla scuola, l’ha chiamata in causa globalmente, con la chiusura generale (aborro il termine lockdown), che ha sconvolto tutta l’organizzazione della vita delle famiglie, con le varie prove, sperimentazioni, improvvisazioni della didattica a distanza e ora con tutti i problemi che si pongono per il nuovo anno scolastico, per la ripresa in sicurezza di una didattica in presenza. Non che le crisi precedenti non riguardassero in definitiva anche la scuola, che è la proiezione della società verso il futuro e che quindi, in un modo o nell’altro, fa sempre i conti con il destino del mondo: ma ora il rilievo e la necessità della scuola si sono visti in atto, proprio per la loro sospensione, per la imprevista e sorprendente interruzione. Non si sapeva cosa fare con i bambini e con gli adolescenti: si veniva a percepire il vuoto e la difficoltà data dal venir meno del tempo della scuola, quella porzione del tempo di vita delle nuove generazioni per cui le famiglie sono abituate a delegare alla scuola controllo e responsabilità. Ed è sembrato che da molti punti di vista il problema maggiore non riguardasse la funzione educativa della scuola, i suoi contenuti, la sua proiezione verso il futuro di tutti, ma l’occupazione di quel tempo. Certo la preoccupazione era più che legittima, tanto più per le famiglie in difficoltà, per tutti coloro che si sono trovati a vivere in spazi spesso ristretti e affollati e con scarsi supporti culturali e tecnologici: mentre è vero che il prossimo ritorno a scuola pone determinanti questioni di sicurezza, che non possono in nessun modo essere trascurati.
Tutti questi problemi dovrebbero spingere a riflettere sul rilievo di contatto e coesione sociale della scuola, sul valore civile e umano di quel tempo a parte che è il tempo scolastico, nel suo “staccare” ragazze e ragazzi dai limiti dell’orizzonte familiare: e su come tutto ciò non si debba risolvere in una ripetizione del già dato, ma nel contatto con quelle persone “altre” che sono i docenti e con le discipline che essi insegnano, con la loro solidità istituzionale, con la loro fascinazione, i loro intoppi e le loro difficoltà. Ma con l’affermarsi del magico toccasana della didattica digitale, con l’affidamento pur necessario a Internet e ai vari softwares, discussioni e progetti si sono concentrati proprio sul rilievo dell’informatica e della rete, su metodi didattici proiettabili da 2.0 a 4.0. Quella che era necessità è stata sbandierata come modello per il presente e per il futuro, con la riproposizione di tutte le zuppe pedagogistiche, pseudoriformistiche, ipertecnologiche che da decenni stanno ammorbando la scuola. Senza nemmeno rendersi conto nel fatto che lo stesso uso salvifico che l’informatica ha assunto nel periodo della chiusura ha pagato il prezzo di una subalternità all’industria e ai suoi risvolti pubblicitari, ci ha ridotto a inquadrare tutti i contatti della nostra vita e tutti gli sviluppi della nostra cultura entro format precostituiti, elaborati dai grandi gruppi multinazionali. Ci si è detto invece che per la scuola l’informatica sarebbe il toccasana per l’eliminazione dei confini disciplinari, il viatico per la rottura dei limiti della classe, la strada per far sì che ciascuno studente possa costruire la propria cultura (pardon, competenza) da sé, secondo le proprie motivazioni, prendendo dalla rete pillole ben confezionate (magari autorizzate ministerialmente) e semmai confrontandole con docenti ridotti a ricucitori di pillole informatiche, meglio se senza libri di testo, ecc.
Sono cose che conosciamo da tempo, ma la sapienza riformistica ha cercato di avvalersi di questa occasione per rilanciarle con più determinata insistenza, sostenuta dalla nuova espansione che l’informatica ha assunto nella difficile situazione, con l’entusiastico favore di tutti i media (per favore, non pronunciate midia). E se in ambito politico il malessere della forzata chiusura ha fatto avvertire in termini più urgenti la necessità di un più forte impegno e di più sostanziosi investimenti per la scuola, se la stampa ha variamente insistito sul rilievo della scuola per il rilancio dell’Italia e per il superamento della crisi, se ne è ricavata comunque un insistenza proprio sui termini e sulle prospettive che hanno contribuito ad uno sfaldamento della scuola stessa, dei suoi contenuti formativi e della sua destinazione sociale. Tra le cose più gettonate ci sono ovviamente le competenze e il capitale umano, che in modi diversi configurano una formazione di soggetti destinati ad agire in funzione di istanze al di là della loro coscienza, a consumare e a produrre seguendo le necessità dei cicli economici. Ecco che dall’Associazione dei Presidi apprendiamo che «i contenuti non interessanti e non motivanti possono essere sostituiti da altri, l’obiettivo infatti è sviluppare una competenza, non l’apprendimento di quel contenuto», tanto che una canzone dei Beatles può essere meglio di Dante (?). Ecco che si auspicano diretti interventi economici da parte del mondo imprenditoriale per il sostegno ad una scuola capace di formare il sempre più necessario «capitale umano» (che dire di soggetti umani destinati ad porsi come frammenti del corpo immenso e assoluto del capitalismo universale! e di programmi costruiti secondo le esigenze di grandi gruppi privati!). Io credo che un vero rilancio della scuola, di una scuola capace di fare i conti con quel difficile futuro che i ragazzi di oggi si troveranno a vivere, dovrebbe partire proprio da una critica radicale di queste e altre formule, delle illusorie trame pedagogiche, in definitiva subalterne ad capitale distruttivo, tutt’altro che “umano”, che continua a lacerare il nostro mondo frantumato e malato.
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Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, è autore di studi sulle più diverse zone della letteratura italiana (da Dante a Tabucchi) e dell’ampio manuale Storia della letteratura italiana (1991 e 2012). Numerosi i suoi studi sulla letteratura del Cinquecento, tra cui Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli (1972), Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro (1977), Il testo e la scena (1980), Machiavelli o dell’incertezza (2003), Ariosto (2008). Su questioni di teoria i volumi Il comico nelle teorie contemporanee (1974), Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura (1996 e 2010), I confini della critica (2005). Molti i suoi interventi, anche “militanti”, sulla letteratura contemporanea, in parte raccolti in Passioni del Novecento (1999). Tra le sue più recenti pubblicazioni: Gli ultimi poeti. Giovani Giudici e Andrea Zanzotto (2013), La fedeltà della ragione (2014), La scuola impossibile (2015), La solitudine del critico (2019), L’ Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia ( 2019).
Ha diretto il volume sulla Letteratura della serie Treccani Il contributo italiano alla storia del pensiero (2018).
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